Studi su Matteo Maria Boiardo / ed. N. Campanini. - Bologna, 1894
[Exempl. StuLB Göttingen]

VII. [S. 229-259]:
 

Rodolfo Renier:

Tarocchi di Matteo Maria Boiardo


I.

Sei anni or sono io pubblicava con questo titolo nella Rassegna Emiliana di Modena (I, 655 segg.) uno scritterello, che ottene accoglienza superiore ai suoi meriti. Esso aveva la scopo di far notare un fatto curioso e prima non avvertito; di chiarire, cioè, che i cinque capitoli del Boiardo furono scritti in servizio di un giuoco di tarocchi. Chiunque legga infatti quei capitoli nell'ediz. di Giambattista Venturi [Poesie di M. M. Boiardo, Modena, 1820, pp. 125 sgg.] proverà qualche meraviglia osservando come sono costrutti. I primi quattro capitoli risultano tutti di 14 terzine e trattano successivamente del Timore, della Gelosia, della Speranza, dell'Amore. In ciascun capitolo ogni terzetto comincia con la medesima parola, che esprime l'affetto a cui il componimento è consacrato. I primi dieci terzetti di ogni capitolo trattano dei varî effetti morali che sogliono prudurre i sentimenti di cui si discorre; gli ultimi quattro terzetti invece sono destinati ad addurre esempi mitologici. Il capitolo quinto ha diversa composizione. S'intitola: Trionfo del vano mondo e risulta di 22 terzine.  Al principio d'ognuna di esse è qui pure un essere astratto, nel seguente ordine: mondo (pazzo), ozio, fatica, desio, ragione, secreto, grazia, sdegno, pazienza, errore, perseveranza, dubbio, fede, inganno, sapienza, caso, modestia, pericolo, esperienza, tempo, oblivione, fortezza. Ciascuno di questi enti morali personificati richiama un esempio storico o mitologico, che con esso è in rapporto immediato.

L'ufficio di questi bizzarri ternarî mal si comprende quando non si ponga mente a due sonetti, che stanno con essi in intima connessione e che il Venturi, con infelice pensiero, ha creduto bene d'ommettere. Sonetti e capitoli leggonsi insieme (e da ciò s'argomenta la loro fortuna) in parecchie stampe cinquecentiste con gli Amori di Girolamo Benivieni e con la Caccia dell'Egidio [Edizioni 1523, '26, '32, '33, '35, '37, '38]. Lasciando in disparte il sonetto excusato, che chiude il giuoco, e che ne' suoi versi stiracchiati non sa dirci nulla che veramente ci interessi, ripeteremo qui il sonetto introduttivo, che bene o male è la chiave di tutto:

Argumento de li ditti capituli
di Matteo Maria Boiardo
sopra un novo gioco di carte.

Quattro passion de l'anima signora
hanno quaranta carte in questo gioco;
a la più degna la minor dà loco,
e il lor significato le colora.

Quattro figure ha ogni color ancora,
che ai debiti suo' offici tutte loco,
con vinti et un trionfo; e al più vil loco
è un folle, poi che 'l folle el mondo adora.

Amor, speranza, gelosia e timore
son le passion, e un zerzetto han le carte
per non lassar chi giocarà in errore.

Il numero ne' versi si comparte,
uno, due, tre, sin al grado maggiore,
resta mo' a te trovar del gioco l'arte.

E di trovare appunto del gioco l'arte io mi industriai non senza qualche successo. Ora peraltro una fortunata scoperta dell'amico mio Angelo Solerti muta in certezza alcune mie congetture, dissipa i miei molti dubbi, rettifica qualche errore, chiarisce le non poche oscurità che il giuoco presentava. Un urbinate, Pier Antonio Viti, ha fornito i capitoli del Boiardo d'un accuratissimo commentario, che si legge in un codicetto della collezione privata del march. Antaldi di Pesaro, ed il solerti pubblica le rime e il commento nella sua edizione de Le Poesie volgari e latine del Boiardo (pp. 315 sgg.). Avendomi egli, buono e gentile come sempre, messo a parte in tempo della sua scoperta, mi è grato di ritornare qui sui tarocchi e di valermi questa volta, per spiegarli, anzichè della mia povera penetrazione critica, dei dati di fatto che mi porge un documento sincrono di tanta importanza.

Prima di addentrarmi  nell'argomento speciale, siami concesso di ripetere qui le poche notizie sulla storia dei tarocchi, che pubblicai già nella suddetta Rassegna. Per esse, o m'inganno, il giuco boiardiano vien posto nella luce gli si conviene.

II.

Sull'origine delle carte da giuoco molto si è fantasticato. Io non voglio qui accennare ai parecchi antichi che le ritennero inventate da Palamede sotto Troia [Ne indico qui soltanto uno, notevolissiomo fra gli italiani, Pietro Aretino nel Ragionamento del gioco. Vedi La terza et ultima parte de' ragionamenti del divino P. A., ediz. Melagrano, 1589, c. 70 v.° e 147 v.°.]; un' origine eroica e favolosa, che ebbero commune con gli scacchi [Vedi, tra i molti, T. Tasso, nel Gonzaga secondo, in Prose filosofiche, Firenze, 1847, I, 391, e fra i trattatisti speciali del giuoco, F. Piacenza, I campeggiamenti degli scacchi, Torino, 1683, p. 32. Ma questa opinione era già stata combattuta da un celebre trattatista del sec. XIII, Jacopo da Cessole. Cfr. Volgarizzamento del libro de' costumi e degli offizii de' nobili sopra al giuoco degli scacchi di frate Jacopo da Cessole, ed. P. Marocco, Milano, 1829, p. 3. Secondo Raffaele da Volterra, Palamede, all' assedio di Troja, avrebbe inventato aleam, vale a dire i giuochi di pura sorte (d'azzardo), tra i quali quelli coi dadi furono i più diffusi ed i più funesti ( Raphaelis Volaterrani commentariorum urbanorum libri, Lugduni, 1552, col. 901). Come erroneamente si sia ritenuto che il vocabolo alea potesse alludere anche alle carte, può vedersi nei Trattatelli dello Speroni, Opere, Venezia, 1740, V, 441. In questo errore cadde anche il Burckhardt (Civiltà, II, 183, n. 2) ove dice che il vescovo Wiboldo di Cambray, intorno 979, suggerì "una specie di tarocco spirituale, con non meno di 56 nomi di virtù rappresentate da altrettante combinazioni delle carte." Il Burckhardt desume la notizia davvero sbalorditoia da una cronaca antica (v. Pertz, Scriptores, VII, 433 sg.). Ivi è detto di quel dabben prelato: "Iste siquidem cericis aleae amatoribus regularem ludum artificiose composuit, quo videlicet in scolis se exercentes, karitate vitia vincere assuescerent, saecularemque et iurgiosam aleam refugerent". La cronaca descrive minutamente il giuoco complicato ed edificante, che è certo curioso, ma non ha nulla a vedere con le carte. Le varie virtù sono subordinate ad un numero, che rappresenta le somme di tre gettate di un dado, ovvero d' una gettata di tre dadi. Tanto è vero che le cifre coefficenti non oltrepassano mai il 6. Quindi in quel luogo alea e aleator non si riferiscono punto a giuochi di carte. Si tratta dei tre dadi usati per il Bugiardello e per altri giuochi di ventura. Cfr. Rossi, Calmo, pp. 446 sgg.]. Ma anche quando la considerazione storica si portò partiolarmente su questo ritrovato, non mancarono le più bizzarre e contradditorie ipotesi. Come quasi sempre suole avvenire allorchè riescono oscuri i principî di qualche cosa, si ricorse all'Oriente, nella cui immensa e misteriosa antichità si può trovar posto per tutto. Le carte si vollero recate in occidente dagli Arabi, o direttamente o per mezzo degli zingari, ed agli Arabi si pretese fossero giunte dall'India, rilevando arcane analogie fra i giuochi di carte ed alcuni giuochi di scacchi indiani [Il più valoroso tra i sostenitori di questa origine è il Chatto nell' opera Facts and speculations on the origin and history of playing cards, London, 1848. I suoi argomenti sono riassunti nella Revue archéologique, XVI, I, 198-201.]. Altri le derivarono dalla Cina; altri dall'Egitto [Qui non è il luogo di estendersi su tutte queste congetture. Chi voglia vedere riassunti i risultati dei primi critici che si occuparono delle carte da giuoco, Menestrier, Daniel, Bullet, Heineken, Rive, Court de Gebelin, Breitkopf, Jansen, Ottley, Singer, consulti Gab. Peignot, Recherches hist. et litt. sur les danses des morts et sur l'origine des cartes à jouer, Dijon, 1826, pp. 203-282. In breve, ma assai bene, riassume i principali fra questi dati il Cicognara nelle Memorie spettanti alla storia della calcografia, Prato, 1831, pp. 114-117. Una notizia bibliografica abbastanza copiosa dei lavori che vi sono intorno alle carte da giuoco è in fondo all' articolo del Lacroix, che avrò occasione di citare in seguito.]. A me sembra assai convincente la maniera con cui rifiuta ogni derivazione orientale il Merlin, nel suo bel lavoro sulle carte da giuoco [Nouvelles recherches sur l' origine des cartes à jouer, in Revue archéologique, an. XVI, 1859, P. I e II.], che è il meglio corredato di fatti ed il più critico fra quanti io ne ho potuti vedere.

Non sembra probabile nè che le carte fossero conosciute in Europa prima della seconda metà del sec. XIV, nè che venissero di molto lontano. È ben vero che fu più volte portato innanzi un passo, in cui si accenna alle carte da giuoco, nel trattato del governo della famiglia di Sandro di Pippozzo, scritto nel 1299 [Vedi Tiraboschi, Storia, ediz. Antonelli, VI, 1580]. Ma tale attestazione, riferita dalla Crusca e poi dal Tiraboschi, venne combattuta con buona argomentazione da Pietro Zani [Materiali per servire alla storia dell' origine e de' progressi dell' incisione in rame e in legno, Parma, 1802, pp. 154 e 160-161.], il quale mostrò come il cod. di cui si servirono gli accadmici non è sincrono all' autore del trattato, e rimonta solo al sec. XV, onde ogni verosimiglianza porta a ritenere che il brano, ove si accenna alle carte, sia interpolato. Lo Zani peraltro va troppo oltre nella sua critica negativa quando mostra credere che prima del sec. XV le carte non fossero conosciute e trova rincalzo a questa opinione, che non fu soltanto sua [La aveva fuggevolmente espressa il Bettinelli nelle note al suo poemetto Il giuoco delle carte. Cfr. Opere ed. ed ined., vol. XVI, Venezia, 1800, p. 280-81.], nella riflessione che il Petrarca nel De remediis utriusque fortunae parla di diversi giuochi, ma delle carte non fa motto.  È molto probabile che quando il trattato petrachesco fu scritto, fra il 1360 ed il 1366 [Gaspary, Geschichte, I, 440.], le carte non si usassero, e se anche si cominciavano ad usare, era certo invenzione recentissima, e l' indole medesima del libro del Petrarca non richiedeva che se ne discorresse. Ma ciò non toglie che già prima della fine di quel sec. XIV le carte fossero conosciute e diffuse in Europa. Le attestazioni che si addussero furono di molto ridotte di numero dalla critica; ma talune si possono ritenere inconfutabili. Appoggiandosi su di esse il Duchesne, in una memoria troppo poco avvertita di mezzo secolo fa [Observations sur les cartes à jouer, in Nnuaire de la société de l' hist. de France, 1837. Questo lavoro io conosco solo per ciò che ne dice il Merlin.], poneva la prima conoscenza delle carte fra il 1369 ed il 1392. Il primo termine egli ricavava dall'assenza del nome delle carte nella lunga enumerazione di giuochi proibiti da una ordinanza di Carlo VI del 1369; il secondo termine gli era dato da un conto di Carlo Poupart, tesoriere di Carlo VI di Francia del 1392, in cui si parla del pagamento fatto al pittore Gringouner per tre mazzi di carte a oro e a colori. Ulteriori risultati convalidano i due termini posti dal Duchesne. Un divieto di Giovanni I di Castiglia ci mostra le carte conosciute nel 1387 a Burgos; dal libro rosso di Ulma, conservato nell'archivio di quella città, appare proibito il giuoco delle carte nel 1397 [È da vedersi P. Lacroix, Cartes à jouer nel vol. II dell' opera Le moyen âge et la renaissance, Paris, 1849.]; ma la precedenza cronologica (nonostante il naufragio di Sandro di Pippozzo) resta pur sempre all'Italia, ove Giovanni di Covelluzzo, nella sua cronaca di Viterbo, ci dice che le carte furono colà introdotte nel 1379. Il fiorentino Giovanni Morelli, nella sua cronaca cominciata nel 1393 [Vedi P. Giorgi, Sulla cronaca di Giovanni di Paolo Morelli, Firenze, 1882, p. 8.], interdice ai fanciulli i dadi e consiglia le carte. Questa apparizione delle carte in documenti così diversi della seconda metà del sec. XIV, mentre prima non se ne ha parola [I due tipi principali di giuoco di fortuna nel medioevo sono quelli dei dadi e delle tavole. Lud. Zdekauer nel suo lavoro su Il giuoco in Italia nei sec. XIII e XIV, in Archiv. stor. it., Serie IV, vol. XVIII, fasc. 4° dice che i giuochi a tavole uscirono di moda quando nel sec. XV si diffusero quelli con le carte, e aggiunge che un giuoco di tabole detto imperiale "ritorna in modo strano nel giuoco dei tarocchi" (p. 28). Si desiderebbe saperne di più; ma in quella memoria essenzialmente giuridica, lo Z. non dà che pochi cenni sui vari giuochi.], può con sicurezza farci riporre in quel tempo il primo uso di esse, nè credo sia accecamento d'amor proprio nazionale il ritenerle comparse dapprima in Italia, ove se ne trova la più antica menzione. In ciò convengono, del resto, anche dotti stranieri, come esplicitamente il Duchesne ed il Merlin, implicitamente il Lacroix.

Il Covelluzzo dice "fu recato in viterbo il gioco delle carte, che venne de Saracenia e chiamasi fra loro naib". E naibi chiama il Morelli le carte che consiglia per trastullo ai ragazzi, e il nome viene latinizzato nelle prediche di S. Bernardino (1423) e nella somma teologica di S. Antonino (1459), e si riscontra in molti passi di scrittori e documenti del sec. XV e XVI, che sarebbe agevole il mettere insieme [Vedi Cicognara, Op. cit., pp. 119-120.]. A questo termine, che credo anch' io col Campori radicalmente straniero, si vollero dare da alcuni radici arabe od ebraiche che portano con sè l' idea di profezia o predizione, da altri gli si trovò un corrispondente, pure arabo, che sta a designare un grado militare. E siccome in spagnuolo le carte da giuoco si dissero e si dicono tuttora naipes, non si dubitò che gli Arabi portassero le carte prima in Ispagna e di là poscia esse passassero in Italia col medesimo nome [È questa la vecchia opinione dell' abate Rive (1750), riprodotta da parecchi. Cfr. Peignot, Op. cit., pp. 220-27 e Breitkopf, Versuch den Ursprung der Spielkarten ecc. in Europa zu erforschen, Leipzig, 1784, p. 12.]. Nè io, pur respingendo la mediazione spagnuola, che non ha ragione di essere, negherò la importanza che ha la attestazione del Covelluzzo. Ma, come ho già accennato, le ragioni che militano contro questa introduzione oreintale sono, a parer mio, di tanto peso, che non valgono certo a sopraffarle la sola stranezza del nome e l' affermazione di un cronista. Due specialmente ne voglio accennare, il non esservi nelle carte antiche né elle moderne, di nessun paese, alcun vestigio serio di provenienza dall'oriente, e l' essere agli Arabi per la loro religione severamente vietato di ritrarre e tenere ritratta la figura umana. Ma questo problema delle origini, insolubile forse con assoluta sicurezza, non può essere quì discusso opportunamente.

I naibi erano carte; ma non tutte le carte erano naibi. Carte era nome generico: esse si dividevano in carticelle e in naibi, detti anche carte da trionfi. Tale distinzione è costante in tutti gli scrittori del sec. XV che accennarono alle carte [Vedi Merlin in Rev. Arch., XVI, I, 297-98; Campori, Le carte da giuoco dipinte per gli Estensi nel sec. XV, p. 13 e documenti.]. Ed in che si distinguessero le carticelle dai naibi è facile il dirlo. Le une erano le nostre carte comuni., divise in 52 pezzi, cioè in quattro serie, di 10 carte numerali e tre figure ciascuna: i secondi erani i tarocchi [Il Bellincioni dice, accennando sicuramente ai tarocchi: Ebbe gran prudenza // chi pose in ne' naibi que' contrari // che sian vinti da' meno e' più denari. Rime, ed. Fanfani, II, 90.]

Io non starò qui ad esporre le bizzarre interpretazioni che furono proposte a spiegare le molteplici figure dei naibi e le loro funzioni nel giuoco dei tarocchi: esse non hanno forse, che le superino in istranezza, se non alcune fantastiche idee espresse intorno al significato originale del giuoco degli scacchi. Nei tarocchi si vollero vedere intendimenti misteriosi, un riflesso della vetusta sapienza egiziana, ed a spiegarne la disposizione si chiamarono in aiuto l' archeologia, la filosofia e la cabala. Questi sogni cominciano col court de Gebelin nel secolo passato [Cfr. il discorso Du jeu des tarots inserito nella sua opera Monde primitif, vol. I, Paris, 1779, pp. 265 seg. Una esposizione di questo sistema diedero il Breitkopf, Op. cit., pp. 20 seg.; il Peignot, Op. cit., pp. 227-239; il Merlin, Rev. Arch. XVI, I, 286 e specialm. 307-9. Il Cicognara, che pure ci si ferma (Op. cit. pp. 130-134), chiama ingegnosa questa teoria, cui non presta fede. Oh sì, troppo ingegnosa!] ed oggi ancora trovano proseliti [Nell' anno di grazia 1888 è uscito in Inghilterra un libro di L. Mac Gregor Mathers, The tarot, its occult signification ecc., London, Redarus, che sostiene l' origine egiziana dei tarocchi e spiega i grandi misteri di sapienza antica e veneranda che essi trasmettono.]. Ma ben più di queste interpretazioni fantastiche a noi importa lo stabilire se i tarocchi siano da giudicarsi anteriori o posteriori alle carte semplici. Il Breitkopf gli reputa posteriori [Op. cit., p. 25.] e si appoggia sulla testimonianza di Raffaele Maffei detto il volterrano (n. 1451, m. 1522), che dice i tarocchi nuova invenzione, ne' suoi Commentarî scritti verso il 1480. Ma il Breitkopf non conosce la testimonianza del volterrano se non a traverso il Garzoni ["Alcuni altri sono giuochi da taverne, come la mora, le piastrelle, le chiavi, le carte, o communi, o tarocchi di nuova inventione, secondo il Volaterrano". Garzoni. La piazza universale di tutte le professioni del mondo, disc. LXIX, Venezia, 1617, c. 244 r.°. Il Garzoni, che ha per i giuocatori una vera antipatia (cfr. anche la sua Sinagoga degl' ignoranti, Venezia, 1617, p. 43) dice altrove nella Piazza: "Ma perchè del gioco et delle sue tristitie discorrerò più lungamente nel trattato de' giocatori, per ora basti questo cenno, rimettendo i lettori a un più ampio discorso in quel luogo particolare". (c. 375 r.°). Questo trattato dei giuocatori non potei vedere, e dubito assai che il Garzoni l' abbia composto. Io mi diedi tutta la cura per rintracciare il luogo del Volterrano, ove si paral dei tarocchi, ma non mi riuscì di trovarlo. Dei trattatisti speciali che mi fu dato consultare nessuno lo cita esattamente. Solo il Lacroix (op. cit.) pare deduca direttamente dai Commentari l' ordine e le figure dei tarocchi, ma egli cita una ediz. tarda dell' opera, senza rinvio preciso. Io vidi i Commentari urbani in due edizioni del cinquecento; ma il passo in questione non seppi rinvenirlo. Nel capitolo particolarmente destinato ai giuochi trovai solo questo passo allusivo alle carte: " Chartarum vero et sortium divinationis ludi priscis additi sunt, ab avaris ac perditis inventi, non solum nostro dogmati, sed publicis veterum moribus una cum alea reiecti, caeteri cessationis gratia viros vel summos quandoque occupatos habuere." (ediz. cit. del 1552, col. 901).]; nè, qualunque essa sia, mi sembra atta ad infirmare la importanza del fatto che le prime attestazioni italiane del sec. XIV parlano di naibi, con che certamente si intendava alludere ai tarocchi e non già alle carte comuni, cui deve aggiungersi che durante tutto il sec. XV, sin dai primi anni di esso, abbiamo indizî numerosi che il giuoco dei tarocchi era usitato [A me sembra giusta l' opinione del Merlin (Rev. cit. XVI, II, 747) che i giuochi con le carte semplici o carticelle non siano che und derivazione dai naibi-tarocchi. Ilgiuoco dei tarocchi con le sue complicazioni non poteva piacere ai giuocatori volgari, avvezzi alla agevolezza spicciativa dei dadi. Quindi sie eliminarono i trionfi, che portavano la maggiore difficoltà nel giuoco. Un appoggio valevole mi sembra anche di trovare nel Ragionamento del gioco dell' Aretino. Ivi le carte, che sono introdotte a parlare col Padovano cartaio, accennano chiaramente al prevalere delle carticelle sui tarocchi: "domanda del perchè, dicono esse, noi ci scostiamo ogni dí più  da' Germini e da' Tarocchi, e vedrai, ch' ella ti dirà, che imitiamo gli eserciti, i quali fanno pochissimo conto degli huomini d' arme, guerreggiando a la leggiera et la pedona." (c. 124 r°. dell' ediz. cit.)].

Il giuoco di tarocchi che può chiamarsi fondamentale, siccome il più generalmente usato e probabilmente il più antico, è quello di origine veneto-lombardo. Esso consta di quattro serie (denari, coppe, spade, bastoni), ognuna delle quali  ha dieci carte numerali, più quattro figure. Una quinta serie, tutta figurata, è quella che risulta di 21 trionfi, più il matto. Sono dunque in tutto 78 carte. - Notevole antichità ha pure il tarocchino di Bologna, che si dice inventato prima del 1419 da Francesco Fibbia, il quale, siccome ritrovatore di questo giuoco, avrebbe ottenuto dai riformatori di Bologna il diritto di porre il suo stemma sulla regina di bastoni e quello di sua moglie, che era una Bentivoglio, sulla regina di denari [Vedi gli scritti citati del Cicognara e del Lacroix.]. Il tarocchino bolognese è una riforma dei primitiv naibi: parecchie carte numerali vi sono soppresse, sicchè il mazzo viene a contare soli 62 pezzi; ma i trionfi sono uguali di numero come nei tarocchi veneto-lombardi, e presentano solo qualche lieve mutazione nel loro ordine. - Abbiamo finalmente le minchiate di Firenze, il più complesso fra tutti i giuochi di tarocchi, in cui le carte sommano a 97, delle quali 56 sono cartacce (numerali, più quattro figure per serie), 40 tarocchi (o trionfi o germini [Il nome germini è forse più antico che minchiate, per indicare la specialità toscana dei tarocchi. L'Aretino, nel Ragionamento cit., che pur nomina una volta le minchiate, come qualità di giuoco (vedi c. 127 v.°.)., distingue sempre i germini dai tarocchi (cc. 73 v.°, 74 r.° e v.°, 103 v.°, 124 r.°, 198 v.°). In un luogo accenna alle più alte dignità dei germini, vale a dire alle trombe ed al mondo. Infatti, oltre i 35 germini numerati, che sono nel mazzo delle minchiate, ve ne ha cinque senza numero, cui sono date le maggiori dignità, e sono stella, luna, sole, mondo, trombe. Le trombe (cioè la fama) costituiscono nelle minchiate la prima dignità, il quarantesimo trionfo. Un curioso uso delle antiche minchiate è quello che fu fatto nel rarissimo poemetto del sec. XVI intitolato I germini sopra quaranta meretrice della città di Fiorenza. In questo bizzarro componimento, che fu di recente ristampato, (vedi Bibliotechina grassoccia, disp. 8, Firenze, 1888, pp. 51 segg.), 36 delle 40 carte dette germini rappresentano cortigiane celebri fiorentine; gli altri quattro germini (cioè i num. 19, 18, 17, 16, che nel giuoco sembra fossero detti salamandre (cfr. pp. 56 e 64) per una ragione che mi sfugge) funzionano da ruffiane, ognuna delle quali presenta nove meretrici. I germini sono qui posti in ragione progressiva, dai più ai meno elevati, in modo tale che molte volte si rilevano chiaramente le loro figure. Specialmente chiari risultano i primi cinque: 40 trombe, 39 mondo, 38 sole, 37 luna, 36 stella. Ma parecchie curiosità di questo poemetto, fra le altre anche la comparsa del Padovano, che giudico non esser altri che il Padovano cartaio dell'Aretino, non è qui il caso di rilevare.]), più il matto, che si confà con ogni carta e con ogni numero. Si hanno dunque nelle minchiate 20 nuovi trionfi oltre quelli degli altri giochi, e la aggiunta è costituita dalle tre virtù teologali, da una delle cardinali, dai quattro elementi e dai 12 segni dello zodiaco [Su tuttociò vedi Merlin, XVI, I, 283-85. Intorno alle minchiate non mi fu accessibile il libro di Saverio Brunetti, Giuochi delle minchiate, ombre, scacchi ed altri d'ingegno, Roma, 1747; ma utilizzai le belle note del Minucci e del Biscioni, nel Malmantile racquistato di Perlone Zipoli con le note di Puccio Lamoni e d' altri, Firenze, 1750, II, 664-68.].

D' onde sieno tratte le figure dei trionfi e quelle più numerose dei germini, è cosa molto difficile a dire. Vi sono in qualche museo alcune di incisioni bellissime del sec. XV conosciute tradizionalmente presso gli amatori col nome di carte del Mantegna [Il Lancy credette ravvisare in quelle incisioni la scuola del Mantegna e difatti la riproduzione di una di esse, che ho potuto vedere nel Lacroix, mi ricorda assai la maniera di quei meravigliosi affreschi mantegneschi che sono nella cosidetta sala degli sposi nella Corte vecchia di Mantova. Ma in materia così ardua io ben mi guardo dallo esprimere una opinione personale. L'Ottley stette per la scuola fiorentina e credette trovarvi la mano di Baccio Baldini o di Sandro Botticelli. Lo Zani, il Pasavant, il Cicognara ed altri ritengono che il giuoco sia di origine veneta e forse più propriamente padovana. Vedi, oltre le opere citate, il bell' album tirato a cento esemplari Die Spielkarten der Weigel'schen Sammlung, Leipzig, Weigel, 1865, pp. 37-38.]. L'analogia tra queste figure (che sono 50, divise in cinque serie di dieci pezzi, ciascuua delle quali contrassegnata con le lettere A. B. C. D. E, in ordine inverso) con i tarocchi fu già osservata da molto tempo: ma chi diede a tale somiglianza il massimo peso fu il Merlin, il quale formulò sulle carte del Mantegna la sua ingegnosa teoria intorno alla origine dei tarocchi. Egli vide un nesso logico rigoroso nella disposizione che hanno le figure in quei disegni, sicchè non esitò a dar loro la importanza simbolica di un sistema filosofico, che si estende a tutto lo scibile. Sarebbe troppo lungo il riferire qui il suo ragionamento. Basti l' aggiungere che 15 tra le figure dei tarocchi veneto-lombardi egli riconobbe nelle carte dette del Mantegna, tra le quali egli trovò pure le 20 minchiate, in più del giuoco fiorentino. Nè solo questo; ma anche nell' ordine volle stabilire delle somiglianze. Secondo lui (a mo' d' esempio) il mondo avrebbe il posto più alto nei tarocchi perchè corrisponde nel giuoco del Mantegna alla prima causa, che ha il n.° 50; ed il matto, cioè lo zero dei tarocchi, che è la più debole tra le figure, corrisponderebbe al n.° 1 del giuoco del Mantegna, che è il misero. Ma naturalmente il Merlin non crede che questo giuoco del Mantegna, relativamente così tardo, fosse l' originale dei tarocchi: i punti cronologici che ho fissati di sopra ne sarebbero una aperta smentita. Egli reputa che quelle figure avessero il loro antecedente nel sec. XIV. In Italia, nel trecento, sarebbe esistito un album di figure molto adatto a divertire e ad istruire i fanciulli, giacchè era una nomenclatura delle cognizioni di allora, un aiuto alla memoria, una specie di enciclopedia per gli occhi. Di queste figure abbiamo una copia nelle incisioni anonime, attribuite, a torto o a ragione, al Mantegna. Si chiamarono naibi, ed era ad esse che alludeva il buon cronista Morelli, consigliandole ai fanciulli. Ma verso la fine del sec. XIV un bello spirito, forse per sidtogliere i giuocatori dal pericoloso e inspido giuoco dei dadi, avrebbe tratto dai naibi il giuoco dei tarocchi, il quale avrebbe conservato il nome di naibi ancora per qualche tempo [Merlin, XVI, I, 286-95 e 302-4.].

Quantunque il sempre oculato ed autorevole Campori mostri di accogliere simpaticamente questa teoria, io non mi dissimulo la sua arditezza e le serie obbiezioni a cui può andare soggetta. Che le cosidette carte del Mantegna, nella loro espressione e disposizione, rientrino nella pittura simbolica tanto praticata nell' evo medio, non mi pare sia dubbio. Ma nulla ci licenzia veramente a dire che la casuale simiglianza con alcuni tarocchi indichi derivazione di questi da quelle, anzichè di quelle da questi. Ed anche senza ammettere derivazioni di sorta, si potrebbe benissimo ritenere independenti, da una parte i trionfi dei tarocchi, con le loro disordinate serie di figure, riferentisi a cose svariate, dall' altra i disegni del Mantegna, rappresentanti ordinatamente nelle loro cinque serie gli stati della vita, le muse, le scienze, le virtù, il sistema cosmografico. Era così agevole il pensare a quelle figure, specialmente in tempi portati a personificare le astrazioni, che davvero le coincidenze non devono recar meraviglia. Nè è fuori di ogni verosimiglianza la ipotesi messa innanzi dal Cicognara che i disegni attribuiti al Mantegna potessero servire a passatempi di natura affatto diversa dai giuochi di ventura, di cui nei libri del Fanti e del Marcolini abbiamo esempi così complessi e splendidamente illustrati [Cicognara, Op. cit., pp. 170-71.].

III.

Ma io sono andato anche troppo oltre.

Sta il fatto che nel XV secolo i tarocchi si usavano in varie foggie, dipinti ed anche stampati. Ed erano giuoco eminentemente aristocratico, quantunque molto più tardi il Garzoni, di cui notai l' antipatia per tutti i giuochi ed i giuocatori, gli relegasse nelle taverne. Ma già il Berni, gran lodatore della primiera, che si faceva con le carte basse o carticelle, avea avuto parole di sarcasmo per i tarocchi, le cui complicazioni non dovevano andargli troppo a genio ["Un altro più piacevolone di costui, per intrattenere un poco più la festa e dar piacere alla brigata a guardare le dipinture, ha trovato che Tarocchi sono un bel gioco, e pargli essere il regno suo quando ha in mano un numero di dugento carte, che appena le può tenere, e, per non essere appostato, le mescola così il meglio che può sotto la tavola. Viso proprio di Tarocco colui a chi piace questo gioco; chè altro non vuol dir Tarocco che ignocco, sciocco, balocco, degno di star fra fornari e calzolari e plebei a giocarsi in tutto un dì un carlino in quarto a Tarocchi, o a Trionfi, o a Sminchiate che si sia: chè ad ogni modo tutto importa minchioneria e dapocaggine, pascendo l' occhio col sole e con la luna e col dodici, come fanno i putti." Commento al capitolo della primiera, nella ediz. Virgili, Firenze, 1885, p. 376. Il commento non muove direttamente dal Berni, ma egli forse vi collaborò e certo poi approvava interamente. Cfr. Virgili, Francesco Berni, Firenze, 1881, pp. 125-129.]. La quale ragione medesima era certamente stata quella che avea fatto prevalere i tarocchi nelle classi più elevate, che erano schife dalla facile volgarità dei dadi e aveano famigliarità con gli scacchi [Tuttavia di vari giuochi che si facevano con le carticelle anche da personaggi elevati vedi notizie in Luzio-Renier, Mantova e Urbino, Torino, 1893, p. 63, n. 3. Cfr. anche l' ediz. Cian del Cortegiano, p. 162.].

Dissi che nel quattrocento i tarocchi si usarono dipinti a mano ed anche stampati. A dimostrare le prime origini delle carte stampate si reca comunemente un decreto del Senato veneto, che ha la data 11 ott. 1441, con cui si proibisce la introduzione in Venezia di carte da zugare e figure depinte stampide [Tiraboschi, Storia, ed. cit., VI, 1581.]. Ma è certo che prima e dopo questo tempo le famiglie principesche usarono di far dipingere le carte da appositi pittori [Intorno alle carte dipinte per ordine degli Estensi dal 1422 in poi dà copiose notizie il Campori, Op. cit., pp. 4 e 7-11. Regge ancora l' idea del Bettinelli (Opere, XVI, 286) che i primi giuochi di carte "servissero solo ad intertenimento di principi e cortigiani, il che dimostrano l' oro e i colori in essi adoperati da pittori di professione, e la paga loro data di molto prezzo. Poco a poco divennero, come le mode sogliono, più comuni, sinchè trovata poi l' arte di far modelli e stampi, giunsero a sollazzar fin la plebe."]. E queste pitture a mano raggiungevano talora una preziosità eccezionale, se non è da reputarsi esagerato il prezzo di 1500 scudi d' oro, che secondo il Decembrio sarebbero stati pagati al pittore Marziano da Tortona per un mazzo di carte eseguito pel duca Filippo Maria Visconti [Muratori, R. I. S., XX, 61. Il Cicognara (Op. cit., pp. 149-158) credette di potere identificare questo celebre mazzo con uno posseduto già dalla contessa Amelia Visconti Gonzaga ed ora dal duca Visconti di Modrone; ma il Campori (Op. cit., p. 6 n.) mostrò come quest' ultimo mazzo non corrisponda punto alla descrizione del Decembrio. Di ciò si era avveduto anche il Merlin, che appoggiandosi appunto alle parole del Decembrio, secondo le quali quelle carte ritraevano Deorum imagines subjectasque his animalium figuras et avium, ritenne che si trattasse di una riproduzione molto ricca delle carte dette del Mantegna (Rev. cit., XVI, I, 299-302). Ma questa non sembra fosse l' opinione del volgarizzatore pseudonimo inedito della Vita Phil. Mar. Vicec., di cui diede notizie il Campori (p. 5 n.), il quale volgarizzatore parla espressamente di carte da triumphi. Non vedo infatti come possa trovarsi strano che in quelle carte di lusso fossero effigiate anche delle figure che non appaiono propriamente nella serie dei tarocchi. Tali figure erano di puro ornamento, e non dovevano togliere il loro significato ai semi e ai trionfi.]. Il Cicognara dà notizia di altri mazzi di carte dipinti a mano verso la fine del sec. XV [Op. cit., pp. 158 segg.], il che prova all' evidenza come nell' uso delle corti le carte dipinte stentassero a lasciare il luogo alle impresse. Fu solo nel secolo seguente che queste ottennero compiuta vittoria e fu allora che Ferrara (sotto Alfonso I) raggiunse in questa industria un posto segnalato [Campori, p. 12.].

Certo su d' un mazzo apposito, dipinto a mano, condusse i suoi capitoli Matteo Maria Boiardo, al quale è tempo che noi facciamo ritorno. A me sembra infatti, che ben si apponesse il Venturi quando ravvisò in questi capitoli "uno de' primi lavori poetici" del conte [Ediz. cit. delle Poesie del B., p. 70.]. È facile il discernervi la poca esperienza nel poetare, la difficoltà nel trovare la rima, qualcosa di stiracchiato e di legnoso, che è ben lungi dalla soave armonia del canzoniere d' amore e dall' onda di molte ottave dell' Innamorato. Non credo quindi di andar molto lungi dal vero ponendone la composizione nei primi anni del soggiorno ferrarese del conte, allorchè egli, non ancora trentenne, stabilì la sua dimora in Ferrara [Tiraboschi, Bibl. Moden., I, 293. Quindi verso il 1461.], ove si acquistò fama, non solo di abile negoziatore, ma di "cavaliere spiritosissimo" e "adornato delle più isquisite e singolarissime qualità" [Libanori, Ferarra d' oro imbrunito, Ferrara, 1665, P. III, p. 208.]. Il giuoco poetico fu quindi destinato ad uno di quei molti trattenimenti sociali, di cui si allietarono le nostre corti del rinascimento.

IV.

Pier Antonio Viti da Urbino, uomo sollazzevole com' egli stesso ci dice [Nel descrivere il matto dei tarocchi, chiosa: "et da ciò che bono principio sia per me dato, de quello che è a me, per quello che se ha dicto, simillimo, incomenzarò" (p. 327). E in fine si scusa per aver descritto molto lungamente quella figura "per essermi de sangue assai congiunta" (p. 328).], fu medico e nella patria sua sostenne onorevolmente due volte, nel 1492 e nel 1498, la carica di gonfalconiere. Nato verso il 1470 da Bartolomeo e da Calliope Alberti, fu, con Pompilio, fratello al celebre pittore Timoteo Viti. Morì giovane in patria il 26 novembre  del 1500 [Vedi Pungileoni, Elogio storico di Timoteo Viti, Urbino, 1835, pp. 3-4.]. Il padre Vernaccia lo disse anche poeta, aggiungendo: "di lui abbiamo veduto presso Gio. Maria Antonio Viti, suo discendente, un capitolo in quarta rima (sic), in cui colla figura del giuoco delle carte rappresenta quattro passioni dell' anima: cioè l' amore, la speranza, la gelosia, il timore" [Parole riferite dal Pungileoni, Op. cit., p. 3, n. Una  copia degli spogli biografici del Vernaccia è oggi nel ms. Oliveriano 1145.] Con le quali parole senza dubbio intese il Vernaccia d' alludere al codicetto antaldiano [Il vecchio march. Antaldo degli Antaldi ereditò i mss. e le cose d' arte della famiglia Viti.]; ma errò nell' attribuire i capitoli del Boiardo al Viti [Gli annotatori del Vasari (cfr. l' ediz. Sansoni, IV, 492 n) ripeterono l' errore, aggiungendone per conto loro un altro. Essi affermano che Pier Antonio prese in moglie Girolama di Andrea Spaccioli. Non è vero. La moglie di lui fu Girolama di Andrea di Lodovico Staccoli, nobile famiglia urbinate, che dopo la morte del marito prese il velo nel monastero di S. Chiara. Fu Timoteo Viti, che nel 1501 impalmò Girolama di Guido Spaccioli.], il quale non ne fu che l' esplicatore. È ben vero che nel codice non è detto di chi i capitoli siano, ma è pure vero che il Viti non se ne arroga mai la proprietà, ed in due luoghi [A pp. 315 e 333 dell' ediz. Solerti, alla quale sempre mi riferisco.] accenna in terza persona al compositore di essi [Le varianti, in confronto col testo a stampa, non sono molte ed il Solerti le ha indicate. L' ordine logico dei capitoli è quello dato dal Viti, conforme a quello accennato nel sonetto esplicativo. In omaggio all' uso letterario, i ternari nelle stampe si chiudono con un verso scempio, il quale dovette mancare nell' originale, come manca nella trascrizione del Viti. Ad ogni carta infatti erano assegnati tre versi e non più. La lezione del cod. Antaldi è in genere migliore di quella a stampa.].

Che la chiosa del Viti sia perfettamente conforme alle intenzioni del Boiardo ed al modo come il giuoco praticavasi in Ferrara, non sembrami cosa dubbia. Il Viti, a parer mio, non fece altro che esporre con ogni cura ciò che aveva appreso, per uso e consumo d' una dama eccelsa urbinate, alla quale professa una ammirazione sconfinata, si direbbe anzi quasi amore, se non si conoscesse il frasario galante del tempo [Vedi p. 331, ove la colloca nel numero delle dee, e p. 330 ove la chiama fenice di tutte le donne, accolta di tutte le grazie. Il Viti le si rivolge di continuo chiamandola "illustre" o "illustrissima madonna" ovvero "patrona mia".]. Confesso che fui tentato d' identificarla con la medesima Elisabetta d' Urbino; ma mi trattennero le seguenti righe: "de questa moltitudine de versi non dico alcuna cosa, existimando che assai ne la Corte de la Duchessa di Urbino ne serà decto, per le egregie creature che vi sono" (p. 336). Non par dunque che la padrona e la madonna del Viti sia Elisabetta. Ma lungi dalla corte non andrei davvero, e se alcuno mi proponesse il nome d' Emilia Pia., l' intima amica della Duchessa, chiamata poscia all' onore di presiedere al giuoco del Cortegiano, esiterei a dir di no risolutamente.

Qualunque sia la donna, il giuoco del Boiardo ci vien descritto con la massima chiarezza ed io ho la compiacenza d' essermi apposto in molta parte della mia prima interpretazione.

Le quattro serie numerali sono rappresentate dai quattro primi capitoli, ciascuno dei quali ha 14 terzine. Su di ogni carta è succesivamente scritta una delle terzine: in mezzo, se sono carte numeriche, in alto, se sono carte figurate [Chi vuole avere un' idea precisa del modo in che dovevano essere costrutte quelle carte e della collocazione del breve con la terzina, veda nell' album calcografico del Cicognara la figura del giuoco trivulziano rappresentata nella tavola IX.]. L' ordine delle carte numeriche è progressivo ed ogni terzina ha nel primo verso indicato o accennato il numero dei semi, che deve avere la carta a cui è destinata [Una semplice occiata all' ediz. Solerti renderà la cosa chiarissima al lettore. L' indicazione numerale delle terzine vi è sempre scritta in corsivo.]. I semi, peraltro, non sono conformi a nessun sistema comunemente usato [In Italia denari, coppe, spade, bastoni; in Francia cuori, quadri, picche, fiori (trifoglio); in Germani cuori, sonagli, foglie, ghiande. Questa varietà di semi è già indicata dall' Aretino, nel Raginam. cit., c. 94 r.° e v.° e 114 r.°.]; ma sono invece desunti dalla qualità della passione a cui si collegano. Amore ha dardi incrociati come bastoni; Speranza ha vasi; Gelosia ha occhi; Timore ha flagelli. In luogo dell quattro figure (fante, cavallo, regina, re) la serie d' amore ha Ciclope, Paride, Venere, Giove; la serie di speranza ha Orazio Coclite, Giasone, Giuditta, Enea; la serie di gelosia ha Argo, Turno, Giunone, Vulcano; la serie di timore ha Fineo, Tolomeo, Andromaca, Dionisio siracusano: e le ragioni di queste figure sono nei terzetti analoghi accennate e nel commentario ampiamente dichiarate. Il lor significato le colora, dice nel sonetto introduttivo il Boiardo. Il colore è nel campo su cui sono dipinti semi e figure, e le figure medesime ritraggono, in qualche parte dell' abbibliamento, di quel colore che indica la passione da esse rappresentata. Qui purtroppo non in tutto ci soccorre la descrizione del Viti, perocchè mancano alcune carte del codice (v. p. 325) in cui certo era detto il colore del timore. E a farlo apposta per questa parte male ci servono eziandio le diverse trattazioni che possediamo intorno al linguaggio cromico del rinascimento [Equicola, Libro di natura d' amore, Venezia, 1587, cc. 247 sgg.; Simiani, Nicolò Franco, Palermo, 1890, pp. 68-70; Ringhieri, Cento giuochi liberali e d' ingegno, Bologna, 1551, c. 38. Vedansi specialmente, nell' opuscolo di v. Cian, Del significato dei colori e dei fiori nel rinascimento italiano, Torino, 1894, estr. dalla Gazz. letteraria, le pp. 15, 26, 35, ove sono riferiti i sonetti del Moretto e di Niccolò da Correggio (quest' ultimo attribuito anche a Serafino Aquilano e a Giuliano de' Medici), ed un altro trascritto dal Sanudo.]. Corrispondono invece perfettamente le indicazioni suddette ai tre altri colori segnati dal viti: morello, cioè violaceo, per l' amore, verde per la speranza, azzurro per la gelosia.

Le quattro serie numerali di quattro colori diversi, con semi e figure mitologiche speciali, dovevano naturalmente essere dipinte a mano a bella posta per questo giuoco. Ma il lavoro più complicato e difficile era per la quinta serie, quella dei tarocchi o trionfi. La minuta descrizione di essi, che il Viti ci fornisce, è quanto di più caratteristico si può imaginare in quella miscela di simbolismo eteico e di classicismo, che fu tanto cara al rinascimento nostro. Confessa il Viti alla sua Madonna d' essersi con tanta minutezza trattenuto in questi "novi Trionfi" perchè essa li possa "far dipingere senza essere ad altri obbligata" (p. 337).

Il quinto capitolo, adunque, è destinato ai naibi propriamente detti, cioè ai trionfi, in numero di 21, più il matto. Perchè nella stampa questo capitolo s' intitoli Trionfo del vano mondo è agevole il dirlo. Il mondo è la più elevata tra le carte de' trionfi nel giuoco veneto-lombardo, ove ha il n.° 21, ed è una pura consuetudine, peculiare, credo, alla terra oggi classica dei tarocchi, il Piemonte, che l' angelo, 20 fra i trionfi, prenda il mondo nel giuoco, quantunque abbia numero minore [Cfr. su quest' uso Prammatica del giuocatore di tarocchi, Torino, 1846, p. 5 e Grammatica del giuocatore di tarocchi, Torino, 1847, p. 9. L' uso d' una carta effettivamente superiore al m ondo non v' è che nelle minchiate, le quali seguono regole molto diverse dai tarocchi ordinari. Ivi, come accdennai, il n. 40 è delle trombe.]. Ora il Boiardo ricongiunge il mondo col pazzo nella prima terzina del quinto capitolo, ed è questo l' unico rimasuglio che nella serie boiardesca si ravvisi delle figure dei tarocchi. Le quali figure mi si conceda, per maggior chiarezza, di enumerarle quali usarono nel sec. XV e nel XVI, con a fronte quelle degli odierni tarocchi subalpini [Rilevo le prime dal Garzoni, Piazza, c. 244 r confrontato con Lacroix, che pare rimonti direttamente al Volterrano; le seconde dai libretti piemontesi or ora citati.]:
 

Uso antico   Uso moderno
0. matto   0. matto
1. bagattelliere   1. bagattelliere
2. imperatrice   2. papessa
3. imperatore   3. imperatrice
4. papessa   4. imperatore
5. papa    5. papa
6. temperanza   6. amore
7. carro    7. carro
8. amore   8. giustizia
9. torre (fortezza)  9. eremita
10. ruota della fortuna  10. fortuna
11. vecchio   11. forza
12. appiccato   12. appiccato
13. morte   13. morte
14. diavolo   14. temperanza
15. fuoco   15. diavolo
16. stella   16. casa
17. luna   17. stella
18. sole    18. luna
19. angelo   19. sole
20. giustizia   20. angelo
21. mondo   21. mondo

Come s' è detto, all' infuori di quel congiungimento del mondo col matto, che è nella prima terzina del quinto capitolo, nulla più troviamo della serie tradizionale dei tarocchi, anzi con quella serie le figure del Boiardo non mi sembra abbiano alcuna relazione visibile. Qui si ha una specie di giuoco fantastico [Parecchi mazzi fantastici, in cui, con vari intendimenti, fu alterata la forma tradizionale delle carte, per sostituirvi altre figure, specialmente a scopo didattico, descrive il Peignot, Op. cit., pp. 287-97. Una serie storica italiana, applicata a vari giuochi, fu composta nel secolo scorso da Fr. Bianchini e pubblicata dal Tommaseo nella disp. 120 della Scelta di curiosità letterarie. Vedi Carte da giuoco in servigio dell' istoria, Bologna, 1871.]. Le terzine, per quel ch' è del senso, procedono indipendenti dai trionfi, e li seguono solo per quel ch' è del numero. La ragion numerica è di serie ascendente, ed ognuna delle figure ha segnato il suo numero in un canto del breve, che reca la terzina esplicativa (p. 328). Enti astratti qui trovano il loro concretamento in fatti e personaggi storici e mitologici, e questi personaggi appunto, descritti accuratamente dal Viti, sono dipinti sulle carte dei trionfi del Boiardo. Nulla ci dice il Viti della ragion d' essere che ha questa serie; ma a me sembra assai probabile che il conte di Scandiano, geniale imitatore del Petrarca nel suo conzoniere amoroso, abbia anche in questo capitolo seguito un componimento petrarchesco, i Trionfi. Nei Trionfi, come tutti sanno, amore è superato da castità, castità da morte, morte da fama, fama da tempo, tempo da divinità. Un elemento trionfa dell' altro; i primi cinque giù in terra, il sesto in cielo. Concetto non dissimile parmi vedere adombrato nel quinto capitolo. Se non che qui non abbiamo una serie fatta a catena, ma le relazioni ci appaiono sempre fra due elementi consecutivi. Il primo posto è del matto, che si fa combinare con l' ultimo trionfo, il mondo, mentre il posto del mondo è occupato dalla fortezza. Nei trionfi intermedi osserviamo che, secondo la serie ascendente, fatica vince ozio, ragione vince desio, grazia vince secreto, pazienza vince sdegno, perseveranza vince errore, fede vince dubbio, sapienza vince inganno, modestia vince caso [È questo l' unico luogo in cui non intendo troppo bene la relazione fra i due elementi.], esperienza vince pericolo, oblivione vince tempo.

La prima e l' ultima carta del mazzo recano i due sonetti: la prima l' esplicativo o introduttivo, l' ultima l' escusativo o conclusivo. Con questi due, adunque, con le 40 carte numerali, con le 16 figure delle medesime, coi 22 trionfi, si ha l' intero mazzo del Boiardo, che consta di 80 carte, come il viti scrive nel cominciare la sua dichiarazione.

V.

Il Viti ci spiega con tanta chiarezza del gioco l' arte, che in poche parole mi sarà dato riassumerla qui. I giuochi, in realtà, sono quattro, non uno solo [Semberanno a taluno alquanto insipidi questi giuochi, nè io avrei molto da opporre; ma suol essere difetto comune ai trattenimenti di simil genere nella rinascenza. D' ordinario in fondo a que' giuochi v' era un intendimento didattico o moraleggiante. Leggasi il libro cit. del Ringhieri ed il Dialogo de' giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare del Bargagli. Come lavoro di divulgazione è assai pregevole lo scritto di A. Solerti, Trattenimenti di società nel sec. XVI, nella Gazzetta letteraria, an. XII, n. 48, 49, 50.]. - I giuocatori si radunano in circolo e in mezzo a loro vengono scoperte e deposte sulla tavola la prima e l' ultima carta, cioè i due sonetti. Poscia ad ognuno è data una carta, onde nasce il primo giuoco, "perciò che ognuno lege li versi che ne la carta sua sono e mostranli a li compagni. Et in ciò si vedono a le volte a donne et omini venire terzetti che sono grandemente al proposito loro, e di gran riso de chi gli ascoltano". Qui abbiamo dei tratti di somiglianza con i motti del Bembo e con le polizze del Lasca [Vedi Cian, Motti del Bembo, Venezia, 1888, pp. 19-20 e nota relativa.], non che con quei celebri giuochi di ventura, pei quali solevansi adoperare i dadi [La descrizione di molti di questi giuochi, del quattro e del cinquecento, può vedersi in Rossi, Lettere del Calmo, Torino, 1888. pp. 446-63 e 492-99. Cfr. anche Cian, Op. cit., pp. 41-43 e per l' Oracolo del Parabosco, Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza, 1789, II, 89.]. La differenza più notevole sta in ciò, che il giuoco del Boiardo non è condotto a domande e risposte, ma ha carattere puramente etico sentenzioso. Non ha più luogo in esso quell' influsso divinatorio e superstizioso, quel desiderio di conoscere il futuro, che suol essere l' anima dei giuochi di ventura [Se è vero che i libri di ventura furono usati più che altro per giuoco nel nostro rinascimento, non credo che nella loro origine, probabilmente assai remota, essi servissero a quest' uso. Già il Rossi (p. 449) ha fugacemente accennato alla parte che vi potè avere la superstizione; ma ritengo che chi volesse estendere la ricerca troverebbe a questi giochi degli antichi precedenti, intesi con la massima serietà, nelle pratiche medievali di magia e di negromanzia. La migliore conferma di ciò è nel modo umoristico con cui parla di uno di siffatti libri quel burlone di A. F. Doni nei suoi Marmi (ediz. Fanfani, Firenze, 1863, II, 181-187). Egli lo fa scritto in lingua araba e portato da un dotto tedesco, che ha la malinconia di voler fare l' eremita. Il procedimento con cui si giunge ad ottener la risposta bramata è assai complesso e bizzarro. L' astrologia vi ha la sua parte e su di essa, come su tutte quelle pratiche, si vede che il Doni versa a piene mani il suo riso sarcastico.]. - Distribuite le carte, comincia il secondo giuoco. Getta il primo giuocatore una carta e gli altri rispondono. Nelle serie d' amore e di speranza vince chi ha carta superiore; in quelle di gelosia e di timore vince chi ha carta inferiore, "perciochè più amore e più speranza sono megliori che meno; e meno gelosia e timore valgono meglio che 'l più de loro." Ne' trionfi vince il numero maggiore segnato nel breve. Gettate così tutte le carte, chi non ha vinto mai è fuor di gioco; degli altri "quello de' giocatori che vincerà, tanti giochi quanti vincerà, tanti scudi potrà dimandare a chi egli vorà di coloro che nel circolo sono in questo gioco." - Con le medesime carte distribuite potrà farsi il terzo giuoco, vale a dire contare il numero de' semi che ciascuno ha in mano. Chi ha più dardi e più vasi vince chi ne ha meno; chi ha meno occhi e meno flagelli vince chi ne ha più; e il vinto dovrà sottostare ad una penitenza. - Il quarto giuoco finalmente consiste nel vedere quali fra i giuocatori abbiano in mano maggior numero di carte con terzetti che si seguitino. A colui che si trova d' averne più è lecito chiedere ciò che gli talenta "de le cose che sono intorno a la persona del victo" [Le due carte poste in mezzo alla tavola (o scanno) servono esse pure a qualche cosa. Due volte il viti accenna che su di esse i giuocatori prestano sacramento. Così si dà giuochi una strana solennità, che è in tutto disforme dagli usi moderni.].

Il giuoco del Boiardo, pertanto, quale il viti ce lo descrive, differisce assai dagli altri giuochi di società fatti con le carte, che sono a nostra cognizione [Vedi Bargagli, Vegghie sanesi, Venezia, 1581, pp. 101-2 e Ringhieri, Op. cit., c. 131 sgg.]. Esso costituisce un tipo a sè, curioso sotto vari rispetti: pel simbolismo morale, che tutto lo informa; per la parte grande che vi hanno l' antichità classica e la mitologia; per l' uso singolare che vi si fa del mazzo dei tarocchi.

Molte volte in Italia si sbizzarrì la poesia intorno ai giuochi di carte. Michelangelo Buonarroti il giovane, nella sua veglia Le mascherate, descrive il giuoco del giulè [Opere varie, ediz. Fanfani, pp. 150 sgg. Nel ricercare la fortuna dei giuochi di carte nella letteratura nostra mi fu di grandissimo vantaggio la coscienziosa Bibliografia italiana de' giuochi di carte, che A. Lensi pubblicò per nozze Fumagalli-Sajni, Firenze, Landi, 1892.], che nel secolo successivo era ormai dimenticato da tutti, come ci attesta quel capo ameno di G. B. Ricciardi, il quale a sua volta piacevoleggia, in certi suoi versi pieni di doppi sensi poco puliti, sul giuoco del cocconetto [Rime burlesche di G. B. Ricciardi, ed. Toci, Livorno, 1881, p. 27.]. La primiera, oltrechè al notissimo capitolo del Berni, diede occasione al poemetto latino in esametri di un altro cinquecentista, Orazio Alevando [Il poemetto, di 300 versi circa, Horatii Alevandi Mutinensis de primerae ludo, fu stampato dal Lensi per nozze Sabbadini-Grifi, Catania, 1890.]. Francesco Zacchiroli, nel secolo scorso, descrisse in versi il faraone [Lensi, Bibliografia, n.° 187.] e recentamente Italo Pozzato diede in versi maccheronici le regole del mauss [Lensi, n.° 114.]. Lorenzo Greco compose un poemetto di cinque canti sul giuoco dell' asino [Lensi, n.° 74.]; un anonimo napoletano poetò nel suo dialetto della bassetta [Lensi, n.° 30.], e altri racchiusero in sonetti le spiegazioni della calabresella e del tersilio [Lensi, n.° 105.]. La bazzica e loa briscola porsero argomento al Belli per tre de' suoi inimitabili sonetti romaneschi [Vedi nell' ediz. Morandi, III, 29 e V, 396, 434. I rinvii del Lensi (n.° 12) non sono del tutto esatti.]. Il tresette poi ebbe speciali carezze dalle Muse. In 290 esametri lo descrisse Gaetano Biondelli e poi in ottava rima Ruggero Mondini [Lensi, n.i 13 e 106.]; Lodovico Morelli ne fece un poema eroico-giocoso di cinque canti, e in nove canti in sestine ne tessè la storia Giulio Cesare Grandis [Lensi, n.i 180 e 168.]; finalmente G. Melato ne trasse occasione per uno scherzo comico in dialetto veneto e Giovanni Lizzio descrisse in ottave siciliane Lu trissetti in paradisu tra Vittoriu, Garibaldi, Mazzini, Cavour, La Marmura e Piu Nonu [Lensi, n.i 103 e 87.].

I tarocchi, in tale accolta, non furono certo i meno fortunati. Tacendo della specialità toscana delle minchiate, che non eccitò solamente la facile vena del Lippi e di Antonio Malatesti [Lensi, n.i 47, 94, 142.], gli stessi tarocchi veneto-lombardi, che spiacevono tanto al Berni e ad Alberto Lollio [La sua invettiva contro il giuoco del Tarocco fu stampata dal Giolito nel 1550. Il Bongi la dice "cosa di poca sostanza, solamente osservabile per qualche notizia sui giuochi allora in uso, e per la sua rarità, derivata dall' essere un opuscolo fuggitivo di piccolissima mole." Annali di Gabr. Giolito, I, 276.] e che più modernamente s' ebbero gli improperì di Lorenzo Mascheroni [Vedi nell' ediz. Fantoni delle sue Poesie, Firenze, 1863, il sonetto Sul giuoco de' tarocchi, a p. 398. Mi sembra peraltro un' invettiva d' innamorato disilluso.], furono con predilezione adottati dalla poesia giocosa, satirica e galante. Oltre il poemetto umoristico in vernacolo piemontese, che ho citato atrove anni sono [Cfr. ora Lensi, p. 169.], mi piace rammentare un opuscolo rarissimo del Notturno Napolitano, Gioco di trionfi, che fanno quattro compagni detti Delio, timbreo, Castalio e Caballino, Perugia s. a., per Cosmo da Verona detto il Bianchino dal Leone [Catalogo della Libreria Capponi, p. 272. La stampa è citata anche dal Cian, Decennio, p. 238.]. Io non so nulla di questa stampa rara all' infuori del titolo. Mi sono note direttamente, per contro, alcune pagine curiose del Caos del Triperuno di Teofilo Folengo [Ediz. Portioli, pp. 129-133.], nelle quali il bizzarro scrittore compone sulle "carte lusorie de trionfi" quattro sonetti, raggruppando le figure a cinque o a sei, in questo modo:
 

1° son.
1. giustizia
2. angelo
3. diavolo
4. fuoco
5. amore

2° son.
6. mondo
7. stella
8. rota (fortuna)
9. fortezza
10. temperanza
11. bagatella

3° son.
12. luna
13. appiccato
14. papa
15. imperatore
16. papessa

4° son.
17. sole
18. morte
19. tempo
20. carro
21. imperatrice
22. matto


In un quinto sonetto il folengo riproduce le 22 figure de' trionfi e aggiunge loro la fama, che, come accennai in addietro, è col nome di trombe il più alto trionfo delle minchiate. Vale la pena di riferire questo mostro d' artificio:

Amor, sotto 'l cui impero molte imprese
van senza tempo sciolte da Fortuna,
vide Morte su 'l carro orrenda e bruna
volger fra quanta gente al mondo prese.

Per qual giustizia, disse, a te si rese
nè Papa mai, nè s' è papessa alcuna?
Rispose: chi col sol fece la luna
tolse contra mie forze lor diffese.

Sciocco, qual sei, quel foco, disse Amore,
ch' or angiol or demonio appare, come
temprar sannosi altrui sotto mia stella.

Tu imperatrice ai corpi sei, ma un cuore
benchè sospendi, non uccidi, e un nome
sol d' alta Fama tienti un bagatella.

Quando, verso il mezzo del sec. XVI, morto Paolo II, i cardinali erano radunati per eleggere un novello pontefice, la satira poplareggiante finse una partita a tarocchi in conclave. Il sonetto caudato assegna i 22 trionfi a 22 cardinali, e nel trovar relazioni tra quelle figure d i personaggi reali, s' aguzza l' aculeo satirico [Questo sonetto si trova edito dal Cian nel giorn. stor. d. lett. italiana, XVII, 338. Ma esso non è originale, anzi è foggiato su d' un altro simile, forse di Pietro Aretino, imaginato per un conclave anteriore. Vedasi V. Rossi, Pasquinate di P. Aretino ed anonime, Palermo-Torino, 1891, p. 46.]. Ad un intento di galanteria fece servire invece i tarocchi il medico Giambattista Susio [Quantunque nato nel 1519 in Carpi, amò chiamarsi mirandolano, per essere la sua famiglia domiciliata alla Mirandola. (Sulla famiglia dei Susi cfr. G. Maffei, Famiglie nobili della Mirandola, annot. da F. Ceretti, Mirandola, 1878, p. 26). Studiò medicina a Ferrara e a Bologna, e diventato medico di buona fama, visse a lungo in Venezia e in Mantova, oe morì nel 1583. Olte parecchie opere di medicina, dettò un trattato Dell' ingiustizia del duello e polemizzò su questo soggetto col Muzio. Fu in relazione col Castelvetro e con Pietro Aretino. Il Tiraboschi (Bibl. Modenese, V, 146 sgg.), a cui dobbiamo queste ed altre notizie su di lui, parla d' un ricco manoscritto di rime sue, che si conservava nella bibl. degli Agostiniani di Crema. Il dotto sac. Felice Ceretti, la cui informazione nelle cose della Mirandola non ha rivali, mi trascrive gentilmente quello che del Susio lasciò scritto F. I. Papotti negli Annali della Mirandola, che il Ceretti medesimo corredò di note, Mirandola, Cagarelli, 1876, vol. I, 51 sg. Ne apprendiamo che il Susio incorse nelle più gravi censure ecclesiastiche, sicchè come a "scomunicato vitando" gli fu interdetta la chiesa. Il suo spirito arguto e sarcastico gli tirò forse addosso quella disgrazia. Del quale spirito può far testimonio un motto suo non decentissimo, che riferisce il Domenichi, Facezie, Venezia, 1599, p. 294, e il fatto che alcune sentenze e concetti di lui si leggono negli Oracoli de' moderni ingegni del Lando. Sull' indole di quest' ultimo librovedi Bongi, Annali Giolitini, I, 298, e I. Sanesi, Ortensio Lando, Pistoia, 1893, pp. 118 sgg., ove una delle sentenze del Susio è riferita.] in certo suo componimento intitolato Motti alle signore di Pavia sotto il titolo de i Tarocchi, che si legge nel cod. 8583 della biblioteca dell' Arsenale in Parigi [Mazzatinti, Mss. ital. delle bibliot. di Francia, III, 142. Il Solerti richiamò la mia attenzione su questo codice. La copia dei motti è dovuta al gentilissimo prof. Ch. Dejob.]. Egli si rivolge a 21 dama inviando un epigramma di tre versi a ciascuna, con allusione ad uno dei trionfi. Ecco la serie. Riferisco l' epigramma quando mi sembra meno indegno di comparire in pubblico:

1. Il Mondo. - Alla consorte del sig. Gentil Beccaria.
2. L' Angelo. - Alla contessa Paola Beccaria.

L' aria gentil che nel bel viso luce
vi fa parer un cherubin mandato
al mondo cieco da l' eterno duce.
3. Il Sole. - Alla consorte del sig. Giulio Delfino mantoano.
4. La Luna. - Alla sig.ra Alda Lonata.
Le tenebre discaccia e luci spira
come la luna nell' oscura notte
dove i belli occhi mai costei aggira.
5. La Stella. - Alla S.a Paola Rippa.
Non men il mondo di costei si gode
che faccia il ciel della più bella stella,
onde ciascun in cor per lei si rode.
6. Il Fuoco. - Alla Sig.a Lebba.
7. Il Diavolo. - Alla moglie de sig. Girardo Maggio.
Alli capei d' argento, al viso d' oro
l' abito giovenil troppo sconvienti
ch' esser si mostra dell' infernal coro.
8. La Temperanza.- Alla S.ra Mezzabarba.
Amor et onestad' insieme unita
di temperanza vi son uno specchio,
che dopo morte vi darà ancor vita.
9. La Morte. - Alla consorte del sig.r Cesare Ferraro.
10. Il Traditore. - Alla S.ra Capharella.
Ecco la traditrice degli amanti,
che qual Medusa gli trasforma in pietra,
Portando il cuor smaltato de diamanti.
11. Il Vecchio. - Alla S.ra Barbara Beccaria.
12. La Ruota. - Alla S.ra Orba Beccaria.
13. La Fortezza. - Alla moglie del S.r Matteo Girgio.
14. Il Carro. - Il nome manca.
Di castità, d' amore e di beltade
triunfa sì costei, ch' unqua non vide
nè vedrà simil mai la nostra etade.
15. La Giustizia. - Alla S.a Scipiona.
Ne la bilanza onor e cortesia
tengo posate, acciò ch' alcun non dica
che men onesta che cortese sia.
16. L' Amore. - Alla S.ra A. G. Astolfina.
Credo ch' Amor su dal celeste coro,
lasciati i strali e l' arco, sia disceso
trasformat' in costei per mio martoro.
17. Il Papa. - Alla S.ra Bianca Bottigella.
Bianca è il mio nome e bianca è la mia fede,
di bellezza a niun' altra cedo il luoco,
nè al Papa invidio la sublime sede.
18. L' Imperatore. - Alla S.ra Ottavia B.
19. La Papessa. - Alla S.ra comissaria Lonata.
S' al sesso femminin fosse concesso
poter salir alla sedia papale,
scelta saria da tutto il nostro sesso.
20. L' Imperatrice. - Alla contessa di S. Polo.
21. Il Bagatella. - Alla S.ra R. T.

L' autore termina i suoi motti riserbando a sè medesimo la figura del matto, con questa degna terzina finale.

Matt' è mia mente, matt' i miei pensieri,
matt' i miei gusti e matto è ciò ch' io faccio
e più matto sarò doman che ieri.
A queste mie poche note sull' uso che i poeti fecero dei tarocchi l' erudizione altrui potrà aggiungere molt' altra materia. Ma è ben difficile sia raggiunta, non che superata, la curiosità caratteristica del mazzo di Matteo Boiardo, quale il viti ce lo lasciò descritto [Non sia dimenticato un sonetto, nel quale sono impiegate le carticelle, non certo a scopo di satira, m di giuoco, edito da A. Saviotti nel Giorn. stor. d. lett. italiana, XIV, 236. Quel sonetto è davvero "una specie d' indovinello", come lo chiama il suo editore.]. Sinora questo è il più notevole giuoco di carte simbolico e letterario del nostro rinscimento. Il nome illustre dell' autore, se contribuì a dargli reputazione e diffusione tra i contemporanei, lo rende vieppiù grato e prezioso a noi posteri.
 
  

Herausgegeben von
Hans-Joachim Alscher
Stand: 1. August 2002

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